domenica 3 febbraio 2008

BIOPOLITICA

JEAN-LUC NANCY, Visitazione (della pittura cristiana),
a cura di A. Cariolato e F. Ferrari, Abscondita, Milano 2002, pp. 96
[titolo originale: Visitation (de la peinture chrétienne), Galilée, Paris 2001].

di Fulvio F. Palese


Visitazione (della pittura cristiana) è un libro il cui senso è ben sintetizzato dal titolo. In esso, infatti, opportunamente, Jean-Luc Nancy mette fra parentesi il nucleo centrale di tutto il saggio: non si tratta tanto di un'analisi del tema della Visitazione nella, ma di una vera e propria Visitazione della pittura cristiana, nei diversi sensi in cui questo genitivo può essere inteso. Il testo, infatti, alla fine risulta essere più il resoconto di un'esperienza (estetica) che l'analisi (filosofica) di un argomento teologico-pittorico; la Visitazione (nel particolare caso di quella rappresentata dal Pontormo sulla tela conservata nella chiesa di Carmignano, Pieve di San Michele - 1528-29) è così intesa come l'oggetto di uno spettatore, ma anche la condizione soggettiva di questo. Lo spettatore "visita" il dipinto col suo sguardo, ma allo stesso tempo sembra esserne guardato e coinvolto in quanto attore, in un circolo continuo di dentro-e-fuori che rappresenta il fulcro su cui è giocato, come vedremo, l'intero libro.
Giustamente si legge nella postfazione dei curatori dell'edizione italiana (Quel liquido splendore dei colori - pp. 57-65): "La pittura, l'arte come Visitazione apre la presenza stessa all'"in quanto" presenza, all'enigmatico essere presente che è sempre al di qua o al di là del suo esserci". L'immemoria, afferma Nancy, di ciò che sempre precede e succede: "assenza propria di ogni presenza", che in quanto immemorabile "non è né da vedere né da dire", ma qualcosa "verso cui non si cessa di procedere". La pittura, da questo punto di vista, è sempre cristiana, sembra dire di continuo hoc est enim corpus meum, così come accade per ogni altra forma di arte plastica o visiva.
La Visitazione è un episodio del Vangelo di Luca [I, 39-56] di non grande importanza teologica. Esso si riferisce alla visita che Maria, dopo l'Annunciazione, decide di fare a sua cugina Elisabetta, la quale ha una gravidanza inaspettata vista l'età avanzata. Il figlio che nascerà da Elisabetta sarà Giovanni Battista. La scena si conclude con Maria che (rispondendo alle parole di Elisabetta: "appena il suono del tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bambino è trasalito per l'esultanza nel mio seno") recita quello che viene chiamato il Magnificat. La scena è dunque completamente spirituale. "L'essenziale [Cristo e il Battista] viene sottratto agli occhi e passa attraverso le voci, attraverso un tocco di voce che fa trasalire l'intimo e il non-nato nell'invisibile". È l'assenza che viene messa in scena, ma anche la possibilità dell'impossibile (le gravidanze delle due donne sono alquanto improbabili: Maria è vergine ed Elisabetta è una donna anziana). I due ventri si toccano senza toccarsi, si intrecciano ma senza diventare mai un unico corpo.
Intendere l'arte come Visitazione significa esporre il suo "essere sempre e comunque altro che viene a noi, che appare, nella sua storicità, che si fa viso, che diviene il qui di un al di là", che non rappresenta, ma semplicemente è, che ci porta a pensare, seguendo Nancy nella sua citazione di Lévinas, che "l'epifania del viso è [sempre e comunque] visitazione". L'arte, in questo senso, è un'eccedenza rispetto a ciò che è prima o dopo, essa è "la nascita della nascita".
Per l'Autore, però, la Visitazione del Pontormo sembra offrire molto altro. Lo sguardo fisso verso lo spettatore delle due serve (le uniche figure che si vedono di fronte) fa sì che si instauri un regime di "mutua visitazione" fra lo spettatore e il dipinto; esse lo cercano, lo visitano a loro volta e lo coinvolgono nella scena, in un meccanismo [questo lo aggiungiamo noi] tipico del Pontormo, ma anche di Diego Velázquez (si vedano, ad es., Las meninas).
Ma il dentro/fuori che Nancy individua nel dipinto non è solo legato allo sguardo delle due serve. Sulla sinistra del quadro si vedono due "omuncoli", appena visibili, piccoli "come le figure mostrate in utero da altre Visitazioni" (delle quali il libro riporta le immagini in appendice). Si tratta di due uomini dall'aria popolare, dei quali uno tiene in mano un coltello e un pane e l'altro una bottiglia (probabilmente di vino). Sono volutamente confusi nel fondo della tela, "come i piccoli nel fondo dei ventri". Questo mostrare il pane ed il vino significa mostrare una seconda volta l'incarnazione, anche se in questo caso "in prossimità del sacrificio e della morte". Dentro/fuori: vita/morte. La comunione - della quale il pane ed il vino (corpo e sangue di Cristo) sono i simboli - come segno di una presenza nascosta, nascosta proprio perché esposta. Nancy legge questo esporre/sottrarre come un notevole segno di "di sottrazione del religioso".
Ma tutto questo intrecciarsi e confondersi di umano e divino, vita e morte, giovinezza e vecchiaia, spirito e corpo, per Nancy "comincia e finisce nella pittura, in quanto pittura". Tutto il quadro è come un ventre, esposto per la superficie della sua tela e dei colori su di essa fissati. L'immemorabile, il sempre-già-qui si confonde con la presenza, sospesa, del quadro. È il levarsi del fondo sulla superficie, il suo riemergere, il convertirsi e rassegnarsi ad una superficie che continuamente e nuovamente cela.
La Visitazione (l'arte, dunque!) è la rappresentazione di una presenza assente, morta prima ancora della nascita, impossibile e possibile, carne in quanto spirito.
CODA - La Madonna del Parto di Piero della Francesca (1460 ca.). Un'apertura totale, uno squarcio "aperto a nient'altro che all'apertura stessa dello spazio pittorico", contenuto e contenente insieme. Tutto è nel fondo in quanto venuto in superficie, "l'intimità ripiegata del soggetto del quadro si spiega e si dispiega nel piano del quadro. La tela, in questo senso, diventa "tagliente" di per sé, squarciata proprio perché in quanto piano. Un'esistenza infinitamente ritratta su di sé, eppure infinitamente esposta a noi. Esempio estremo di questa forma della pittura è individuato da Nancy nell'ultimo dei dipinti riportati in appendice, quello di Simon Hantï (...del Parto, 1975) nel quale l'intero dipinto si apre in squarci senza mai diventare altro da sé, rimanendo, appunto, "piano".
Nancy si sofferma più volte sul fatto che quello che noi definiamo pittura cristiana non è semplicemente una pittura a soggetto cristiano, che ne ritrae i concetti o le scene. È il cristianesimo, all'inverso, che "fa pittura", che dà corpo allo spirito (e nella Visitazione questo è molto evidente): questo è "l'essenziale di ciò che chiamiamo l'arte". La presenza reale del cristianesimo, come quella dell'arte, è la presenza che per eccellenza non è presente, "quella che non è qui". È una pittura che dice: questo è il mio corpo. Corpo in quanto assenza di un esser-ci che è qui proprio perché è altrove.
Nancy afferma che la pittura (cristiana, in quanto pittura!) possa rappresentare l'istanza più ampia del monoteismo in genere, delle tre religioni monoteistiche: il Dio "cristiano" propriamente detto, che si presenta nascosto, il Dio ebraico, che si manifesta dall'indicibile e dall'invisibile, il Dio musulmano, irriducibile ad ogni presenza. La Visitazione del Pontormo potrebbe essere un quadro ebraico: mostra il Dio proprio nella misura in cui questo è sottratto alla presenza.
Significativo il rimando finale ai totalitarismi, di ogni specie, (fascismo, comunismo, Auschwitz e Hiroshima), che per Nancy hanno fallito proprio "nell'imporre il "qui" dall'al di là, anziché inscrivere l'al di là in quanto "qui"", di aver voluto pensare [questo lo aggiungiamo noi seguendo una strada aperta altrove da Nancy stesso] al compimento e alla chiusura di una comunità già da sempre data.
Un unico appunto all'edizione italiana (non avendo consultato quella originale francese): l'Appendice iconografica di cui il testo è corredato è in bianco e nero. Non di rado, durante la lettura del saggio, si ha bisogno di fare ricorso ad altri testi che riportano le stesse fonti iconografiche per vedere le immagini a colori, visto che spesso Nancy commenta non solo le figure e le forme, ma anche i colori e le loro sfumature.

biopolitica@ecotecnia.world

Il presente contributo prende spunto dall'articolo Note sur le terme "biopolitique" di Jean-Luc Nancy, di cui è, per certi aspetti, la parafrasi. Si rimanda, pertanto, per ogni ulteriore approfondimento, a tale testo(1) e ai numerosi luoghi dell'intera opera del filosofo francese che hanno trattato (più o meno esplicitamente) il tema della biopolitica.
A monte di tutto il discorso troviamo la classica distinzione che Aristotele aveva operato fra zoè e bios e cioè fra "nuda vita" e "forma vita"; la differenza, in altre parole, fra la vita semplicemente vivente (biologica) e la vita come messa in gioco di un senso o, come dice Nancy, di un "essere".
Ma è stato con Foucault che il termine biopolitica ha assunto un significato rilevante e innovativo rispetto al tradizionale rapporto fra politica e vita e, soprattutto, fra potere e bios. Per quest'ultimo la parola designava il fatto che, a partire dal XVIII secolo, il controllo delle condizioni della vita umana è diventato espressamente un affare politico (salute, alimentazione, demografia, esposizione ai pericoli naturali e tecnici, etc.). Fino a quel momento, il potere si era interessato poco ed aveva altri oggetti diretti del suo esercizio: il territorio, innanzitutto, e la conservazione del potere dinastico. Non c'è molto da aggiungere su questa tesi storica, se non che richiederebbe, come afferma Nancy, un esame più preciso di ciò che è stato prima dei tempi moderni la preoccupazione biopolitica; vi era, infatti, una politica del grano a Roma o una politica delle nascite ad Atene, per esempio.
Rispetto ad un termine analogo come può essere quello di "bioetica" è opportuno fare alcune precisazioni. Quest'ultima, infatti, è il tentativo di un progetto etico tendente a regolamentare le azioni derivanti dalle istanze e dalle nuove possibilità delle tecniche biologiche o di biotecnologia e non, invece, di pensare ad un'etica "globalmente regolata sul bios". La bioetica, in altri temini, sembra oggi cristallizzata su questioni che rimandano a decisioni morali, spesso legate a presupposti di carattere religioso, senza accettare che è ormai lo stesso concetto di vita che viene ormai modificandosi in maniera esponenziale e che la conservazione della vita umana passa sempre più per la tutela della vita in generale. Ma questo è un discorso che porterebbe lontano dal tema a cui qui si vuole accennare.
Il nodo principale da sciogliere, dunque, riguarda il concetto di vita naturale, della sua produzione e della sua conservazione, motivo per cui non è detto che si riferisca alla vita umana. L'uomo, nel contesto del bios, costituisce un caso particolare. Esso si trova in uno status che non smette di essere transitorio. Condizione che è il risultato di una vita mai definitivamente data, esposta sempre al suo altro, sull'orlo del baratro, buco nero (presenza/assenza), che modifica e progetta le forme della sua conservazione. In queste condizioni la vita "biologica" combatte con la sua apparente negazione, con il totalmente altro da sé e nel contempo incorpora e stabilisce condizioni che saranno necessariamente "tecniche". Ecotecnia, dunque.
Il bios - o la vita come "forma di vita", come messa in gioco di un senso o di un "essere" - si fonde nello zoè, la vita semplicemente vivente, ma questa, in realtà, è già diventata techne.
È evidente che oggi il controllo sulla vita da parte dello stato riguarda sempre più le forme di "vita naturale" e non soltanto le forme socialmente determinabili. Tuttavia, è evidente che suddetta "vita naturale", dalla sua produzione fino alla sua conservazione, i suoi bisogni e le sue rappresentazioni, che si tratti di vita umana, animale, vegetale o virale, è oramai inseparabile da un insieme di condizioni "tecniche".
Di questa condizione generale del bios la politica, che dunque non può non essere biopolitica, deve tenerne conto, tendendo a formularsi come "globalmente determinata per la vita". Non si tratta di una politica che determina la vita, ma al contrario di una vita che determina la politica o, al limite, della sfera politica come coestensiva alla sfera della vita. Il bios è divenuto la fonte di ispirazione di ogni sua azione. La tendenza autodissolutiva della vita esige dalla politica che la si riduca a corpo, l'unico elemento che essa può pensare di salvare.
Per Nancy la distinzione fra vita naturale e tecnica è oramai del tutto inverosimile (vedi Corpus e L'intruso), anzi si può dire che siano quasi la stessa cosa. "Finché non avremo pensato fino in fondo la creazione ecotecnica dei corpi come la verità del nostro mondo - e come una verità che non è affatto da meno di quelle che i miti, le religioni, gli umanesimi hanno rappresentato -, non potremo dire di aver cominciato a pensare questo mondo qui"(2).
Ciò che fa mondo oggi, è esattamente la congiunzione di un processo ecotecnico illimitato e di un venir meno delle possibilità di forme di vita e/o di fondamento comune. Il mondo in queste condizioni, o la mondializzazione, è solamente l'enunciato preciso e severo di questo problema. Superando l'idea di Foucault per cui la politica da un certo momento in poi ha cessato di arrogarsi il diritto di procurare la morte e si è concentrata sull'idea di conservazione della vita, "il rapporto fra politica e vita - come sostiene Donna Haraway - passa ormai per un filtro biotecnologico che ne scompone entrambi i termini prima di riaggregarli in una combinazione inafferrabile da parte dell'apparato categoriale foucaultiano"(3). Haraway, affermando che non esiste più un corpo come dato biologico acquisito, intende dire che la vita è ormai soggetta ad un processo tecnico difficilmente riconducibile alle categorie socio-culturali della modernità. Non si tratta di un concetto simbolico o di un semplice prolungamento artificiale del corpo, bensì di un corpo (questo corpo) che introietta qualcosa che assolutamente non è corpo, provocando una sorta di "interruzione dell'evoluzione biologica per via di selezione naturale e la sua iscrizione in un differente regime di senso"(4). Il soggetto non è più, dunque, un dato originario. L'ecotecnica è la condizione di un'esistenza che non coincide in tutto e per tutto con se stessa, per la quale il termine postumano sembra oramai inevitabile.
La parola biopolitica non designa, in queste condizioni, né la vita come forma di vita, né la politica come forma di coesistenza. La biopolitica designa, altresì, la simultaneità dei due termini, o la loro totale assenza, intendendo con questo che essa è da inserirsi un contesto di senso difficilmente riconducibile alle classiche categorie dei due termini che la compongono.

FULVIO F. PALESE
(Università di Lecce)